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Riportiamo qui l’editoriale del numero 1 di “Qui - appunti dal presente”, quello del numero 10, con il quale la rivista ha iniziato a essere una sorta di diario collettivo e a uscire anche in un’edizione in inglese, e l’editoriale dell’ultimo numero.

Da “Qui - appunti dal presente”, 1, autunno 1999
Che cosa ci interessa? La vita, basterebbe dire. E a questi “propositi” si potrebbe mettere un punto. Ma la vita sfugge. Non nel senso che si muore, non nel senso che l’ora non fa che revocarsi in allora: in un altro, anche se a questo intrecciato. Come c’è un ognuno di noi che non è tranviere, filosofo, italiano…, ma è il suo nome e cognome; così c’è una dimensione che non è lavoro, tempo libero, questa o quella attività culturale, politica…, ma li attraversa e ne è attraversata. C’è. E come chiamarla, se non vita?
Ma sfugge, perché ruoli e attività professionali, identità di categoria e gruppo, discipline scientifiche e culturali, specializzazioni del tempo libero ecc. vi lasciano i loro depositi, frammisti, confusi, e nello stesso tempo la abbandonano. Come se la vita fosse la loro zona cieca. E quello che resta, un residuo.
Abbiamo dovuto pensarci parecchio, prima di deciderci a iniziare questi “propositi” con parole che, giustamente, avranno fatto sorridere. Giustamente, la parola “vita” suona retorica, vuota. Giustamente nel senso che è così: che la “cosa” vita è vuota, misera. Svuotata. Se in altre direzioni il sistema in cui viviamo non ha tendenzialmente una fine né un fine, ma riproduce e perpetua lavoro e tempo libero, tranvieri e filosofi, profitti e povertà, nella direzione della vita un fine, di fatto, ce l’ha, ed è una fine: il suo svuotamento. Farne una “misera cosa”. In questo svuotamento tentiamo, qui, di fissare lo sguardo. Mossi da necessità innanzi tutto (“l’unica cosa che ci rimane / è questa nostra vita”, diceva una vecchia canzone di Lotta Continua), e, nello stesso tempo, attirati dalla sua promessa. Promessa, sì, perché in quella zona cieca che sfugge si nasconde forse, e così si preserva, anche una possibilità. O un’utopia. Vogliamo, infatti, fare una rivista realistica e utopica, che pratichi la vista e insieme la visione. Che cerchi di esercitare, guardando alla dimensione che chiamiamo vita, la capacità dell’attenzione, ma con abbondanza: non rinunciando alla riflessione né all’immaginazione… Ci si rinuncia, d’altronde, vivendo? No. Quello cui si rinuncia, caso mai, nel fitto succedersi delle ore, dei fatti, è a guardare il groviglio di pensieri, immagini, associazioni che lì, qui, si fanno e si disfano. Noi vogliamo guardarlo.
Per questo ci rivolgiamo alle, come chiamarle?, attività in cui le capacità dell’attenzione, della riflessione, dell’immaginazione si sono specializzate: alla letteratura insomma, alla poesia, alla filosofia ecc. Cercando però di costringerle a essere meno, il meno possibile, rappresentanti ognuna della propria istituzione, specializzazioni appunto, e più, molto di più, voci che si parlano. Che si interrogano, si rispondono, si sovrappongono, si interrompono. Come avviene nella vita: vogliamo fare una rivista tanto realistica da essere un’imitazione della vita.
E l’utopia? L’utopia sta proprio in questo. Si provi a prendere sul serio la propria vita quotidiana: a non compensare il lavoro con le ferie; i brutti edifici di fronte alla finestra con la campagna o la distesa del mare; i rapporti strumentali, da clienti, concorrenti o utenti, con, quando ci sono, l’amore, le amicizie, la paternità, la maternità; il chiacchiericcio, la superficialità, la fretta, anche i giornali e la televisione, con la lettura di un romanzo, una poesia, un saggio…
Compensare è, certo, necessario; ma si provi a non farlo proprio sino in fondo, a non vivere del “nonostante”: nonostante le macchine sui marciapiedi, nonostante le guerre… Si provi, ancora, ad aderire al proprio nome e cognome: a leggere, per esempio, anche le parole della pubblicità come parole rivolte da una o più singole persone ad altre singole persone (lo sono)… Ci si troverà, crediamo, spaesati. Senza paese, o nell’utopia.
A questo, addirittura, miriamo? E con una rivista, con un po’ di parole? Sì. E speriamo di farcela? No: miriamo e basta. Come tanti altri. Come tanti altri, uomini, donne, riviste, libri, attività, gruppi…, questo abbiamo in testa: che un’alternativa al modello di vita dominante sul nostro pianeta è, se non necessaria, desiderabile; che essa, se emergerà, non emergerà probabilmente nemmeno come possibilità ancora per generazioni e generazioni. Ma è desiderabile. E di questo desiderio vale la pena cercare di stare all’altezza.
Vogliamo, insomma, fare una rivista politica. Di politica, anche, culturale? Lasciamo perdere queste espressioni… La letteratura, la poesia, la filosofia, la psicoanalisi, la sociologia, la storia… ci interessano. Sanno praticare lo sguardo come vista e insieme come visione: l’hanno dimostrato. Ma ci sembra che, per essere spalle al muro nella vita sociale, guardino alla vita degli uomini e, quando accade, ne siano guardate, sempre più da lontano. Come dicendosi addio.
Non che letteratura, poesia ecc. siano esangui: qua e là forse lo sono, ma non è questo. E non è nemmeno che prendano per vita “l’orizzonte del mercato”, anche se accade. È, piuttosto, che le condizioni di vita sociale delle attività e dei prodotti culturali sono ormai compromesse: il loro ascolto, la loro efficacia, la possibilità che vengano loro poste domande, che entrino in dialoghi. E questo, crediamo, perché a essere compromesse sono le condizioni di vita tout court. Di vita degli uomini. Se ci interessa la “cultura”, è soltanto perché ci interessa la vita. È un’attività, perciò, che qui vogliamo presentare, non solo dei risultati, ed è come un’attività, non solo dei risultati, che vogliamo che “Qui” si presenti. Quello che avviene già sempre, che qualunque testo entra nel corso della esistenza di chi lo legge come in un dialogo continuo e spurio, di ognuno con se stesso, con altri e altro, di pensieri e ricordi… ora, forse, non basta più che avvenga: va fatto. O va fatto perché continui ad avvenire.
Che chi legge sia un interlocutore, non un pubblico, e la lettura una interlocuzione, non un consumo: questo vorremmo. Uno scritto si consuma quando non si può aggiungervi nulla, solo togliervi qualcosa, come avviene a qualunque testo, a leggerlo nella maniera promossa, appunto, dal “consumo”. Ma possiamo ancora contare sulla naturale disponibilità di un’altra maniera? No, è evidente. Scritti che intervengano come battute in un dialogo, si presentino come momenti di una attività, che evochino la dimensione della interlocuzione e dell’aggiunta, possono forse sottrarsi meglio all’impasse. E persino indicarne una via d’uscita simbolica (fattuale non è in potere delle parole).
L’ordine di problemi che abbiamo in testa nell’avviare la rivista che state leggendo è questo. Crediamo che siano problemi sentiti da molti. Perciò, nell’iniziare il lavoro, ci facciamo gli auguri.


Da “Qui - appunti dal presente”, 10, febbraio 2005
Che cosa vogliono essere, questo e i prossimi numeri di “Qui”? La quarta di copertina dice: un diario, una specie di romanzo. Un diario, certo: la maggior parte dei testi portano una data, l’indicazione del luogo da cui sono stati scritti, e seguono lo scorrere del tempo pubblico e privato. Riflettono l’urgenza e il clamore dei grandi eventi, il tempo a volte più paziente della vita quotidiana, con i suoi ricorsi e le sue fedeltà, e il carattere apparentemente fuori del tempo della vita interiore. Di qualcosa parlano diffusamente, di altro tacciono, riflettendo le scelte a volte casuali, “di giornata”, degli autori. Non tutti i grandi eventi sono “coperti”, vi sono giorni e settimane intere di silenzio, e i contenuti sono vari. Come in un diario.
Ma un diario “in pubblico”: quasi tutti i collaboratori sapevano che le loro pagine sarebbero state pubblicate, e gli altri hanno accettato che lo fossero. Inoltre, c’è stata una selezione: alcuni testi sono stati esclusi e altri, su nostra sollecitazione, riveduti. E il diario è intervallato da brevi saggi e prose letterarie distribuiti lungo le pagine secondo questo o quel criterio. Quale? Quali criteri hanno suggerito esclusioni e inclusioni, revisioni, distribuzione dei testi?
L’interesse di un argomento, certo, la qualità della osservazione, della riflessione, della scrittura. Ma anche un tono, il suono di una voce, il contrappunto o l’armonia, inaspettati, fra un testo e un altro. Per questo abbiamo parlato di una specie di romanzo. Un romanzo che ha rinunciato radicalmente al “punto di vista di Dio”, al narratore onnisciente: nessuno ne sapeva, e nessuno ha mai potuto deciderne, svolgimento ed epilogo; come sarebbe andato a finire.
Queste pagine sono una specie di romanzo nel senso che mirano, oltre che a dire, a rappresentare: a rappresentare il coro, a volte intonato a volte stonato ma sempre coro, che i sentimenti, i pensieri e le parole che circolano nel mondo scontento sono (perché nel mondo scontento? perché se facessimo parte e ci interessassimo del mondo contento non faremmo questa rivista). E a rappresentare, inoltre, la contemporaneità di tempi diversi: non solo di quello pubblico, privato e interiore, ma anche del tempo di pace e del tempo di guerra, di agio e di ristrettezze, di novità e di consuetudine in cui, contemporaneamente, il pianeta gira.
Sono sentimenti del genere che vorremmo che questa rivista trasmettesse al lettore. Come una specie di romanzo. Di cui gli autori dei singoli testi sono qui, anche, come dei personaggi: contraddistinti ognuno da un tono di voce, da un carattere; portatori ognuno di un punto di vista, di un’area visiva. E non molto diverso è, in questa lettura, il ruolo che assumono i diversi generi di scrittura praticati, dal saggio alla narrazione, dalla diaristica alla prosa letteraria: ognuno è se stesso, certo, e dice quel che dice, ma rappresenta anche una modalità e una tonalità di rapporto con l’esperienza. Il nostro consiglio è quindi di leggere le pagine che seguono come si legge un romanzo, dall’inizio e di seguito.


Da “Qui - appunti dal presente”, 26, ottobre 2011
Nell’ottobre del 2009 questa rivista ha smesso di uscire. Non abbastanza soldi (cioè abbonamenti); troppo lavoro (cioè mancanza di collaboratori per i compiti più esecutivi: dalla correzione delle bozze all’impaginazione, dalla stampa degli indirizzi all’imbustamento); e anche, non ultimo, il bisogno sempre più sentito che a pensarla e comporla, dopo dieci anni in cui l’avevo fatto sempre io, partecipassero altri. Queste, allora, le ragioni della fermata. Che pensavo, temevo, sarebbe stata definitiva. Invece, nel gennaio 2011, “Qui” ha ripreso a essere pubblicata. E promettendo quattro numeri all’anno invece che, come prima, tre. Con questo numero, anche se uscito in ritardo, la rivista mantiene la promessa, ma, nello stesso tempo, chiude. Definitivamente. Cosa è successo?
Nel corso del 2010, alla ricerca di un editore che contribuisse a risolvere almeno i problemi di “troppo lavoro”, ho incontrato una cooperativa editoriale. Il rapporto, all’inizio, è apparso promettente. Tanto da indurmi ad annunciare ad abbonati, lettori, amici che, sì, “Qui” avrebbe ripreso a uscire; a cercare fondi, chiedendo a molti un sostegno straordinario; a raccogliere indirizzi su indirizzi di potenziali abbonati cui proporla.
Il rapporto con quella cooperativa si è chiuso quando ho capito che non avrebbe potuto risolvere i problemi della rivista, neanche quelli del “troppo lavoro”. Ma, nel frattempo, alla richiesta di un aiuto economico molti avevano risposto, assicurando fondi che, prevedevo, sarebbero bastati per un anno o quasi (e così è stato). Poi, il gran numero di indirizzi e-mail raccolti - di singole persone, associazioni del volontariato, gruppi di acquisto solidale, botteghe del commercio equo e solidale, agenzie di turismo responsabile - mi induceva a sperare che il numero degli abbonati sarebbe cresciuto, se non moltissimo, in misura almeno sufficiente ad andare avanti. Così non è stato.

Una parentesi. Sto raccontando una storia, in qualche modo, privata: di una rivista nata per iniziativa di un singolo e priva di finanziamenti, se non provenienti, per lo più sotto forma di abbonamento, da altri singoli. Le riviste, e iniziative culturali in genere, che vivono in queste condizioni sono tante; e pressoché per tutte trovare i mezzi, i soldi per andare avanti è molto difficile. La storia di “Qui” diviene così un po’ meno “privata”. Riflette, come un caso fra gli altri, le condizioni che facilitano o ostacolano la circolazione dei cosiddetti “prodotti culturali”. Le condizioni che la facilitano sono, in sostanza, soldi e pubblicità. Se mancano, è un grosso ostacolo.
Alcuni, di fronte a questa situazione, pensano che la cultura dovrebbe godere di finanziamenti “pubblici”, parola equivoca che in genere sta per “statali” o simili. Che possa essere utile è certo: molte iniziative culturali, del resto, ne godono. Che, come a volte si dice, per lo Stato, cioè per la politica, chiamato a differenza del mercato a fare gli interessi collettivi, offrirli sia un dovere, può darsi. Io, tuttavia, ho più di un dubbio e, fra le altre, per una ragione. “Statale”, com’è noto, non è sinonimo di “pubblico”, né “pubblico” è il contrario di “privato”. Pubblico è sinonimo di collettivo, qual è il contesto in cui si svolge l’intera nostra vita. Chiedere che sia la politica a tutelarlo è non chiederlo al mercato, che lo modella ben di più. Dirgli che faccia quel che vuole. E lo fa.
Chiedendo che la cultura sia finanziata dallo Stato, insomma, si nasconde e si lascia inalterato, si elude, si evita anche soltanto di porsi, non solo il problema dello strapotere dei soldi, quindi dei grandi apparati, nella circolazione dei prodotti culturali, ma soprattutto, chiedendo per la cultura un privilegio immotivato, si elude il problema più di fondo: lo strapotere dei soldi, quindi dei grandi apparati, sulla nostra vita pubblica, cioè sull’intera nostra vita. Sul lavoro, per esempio, e sulla stessa politica (dove i grandi apparati si chiamano grandi partiti). Il problema è lo strapotere. (E “Qui”, questo, l’ha avuto sempre presente, a partire dalla scelta di mettere in primo piano, nelle sue pagine, testimonianze di vita di singole persone.)
Alcuni, di fronte a questa situazione, pensano al contrario che una rivista, come qualunque altro prodotto, culturale o meno, debba affrontare il mercato. Se non vende, significa che di essa non c’è “domanda”. Qui, ho più che dei dubbi. Così si dimentica, oltre a tante altre cose, la pubblicità. Non mi riferisco soltanto alla pubblicità in senso stretto, quella degli spot televisivi e dei cartelloni per le strade, ma all’obiettivo della pubblicità e ai modi della pubblicità per raggiungerlo. Entrambi sono sempre più egemoni ovunque si pronuncino o scrivano parole e si mostrino immagini.
Non che l’obiettivo e i modi della pubblicità abbiano, per fortuna, monopolizzato l’intera comunicazione fra le persone - forse non vi riusciranno mai - ma fanno sentire sempre più il loro sapore, sgradevole, non solo in televisione e sui giornali, dov’è fortissimo, e nella comunicazione politica, dove la demagogia non è che una forma di pubblicità e un leader carismatico nient’altro che un testimonial. Lo fanno sentire anche in moltissimi film, romanzi, opere di saggistica, persino nel linguaggio delle associazioni di volontariato, persino nella conversazione privata.
L’obiettivo della pubblicità è vendere: una merce, un’idea, una causa o un partito politico. E lo persegue cercando di convincere chi, già così, tramuta in potenziale “cliente”. Il termine e l’atto di “convincere”, “persuadere”, hanno, contrapposti a imporre o corrompere, una storia dignitosa, certo. Hanno contribuito al passaggio, dove c’è stato, dalla violenza alla ragione, dalle armi alla parola. Ma contengono un’implicazione pericolosa che, quella storia, la tradisce, la rovescia. Come avviene sempre di più. L’intenzione di convincere genera una comunicazione in cui all’altro si chiede soltanto di reagire o rispondere (comprando, aderendo), non di agire o porsi domande in proprio. La libertà che così gli si offre è soltanto quella, misera, di dire “sì” o “no” a qualcosa di già stabilito. Non di dire “altro”. È facile capire che cosa diventa una società, che cosa ne è dei suoi membri, quando una comunicazione del genere è egemone. L’intenzione di convincere genera una comunicazione strumentale, il cui obiettivo - a differenza di quelli di una buona poesia, un buon romanzo, un buon saggio, una buona conversazione - è prefissato. Bisogna arrivare lì. Diviene quindi “naturale” che, per arrivarci, si ricorra ai mezzi che paiono più efficaci, non importa i danni che causano lungo il percorso. Per questo si è sentita la necessità di dare, alla pubblicità in senso stretto, delle regole: per limitare i danni. Ma, oltre a venire costantemente aggirate, tali regole non toccano il cuore del problema. La pubblicità resta la pubblicità: mente (nel senso proprio del termine o per omissione), ammicca, cerca il sensazionale, la battuta a effetto (come i politici nei talk-show), gioca sulle emozioni muovendo al riso, al pianto o all’indignazione (come tante campagne umanitarie), è morbosa, stuzzicante ecc. ecc. A quale nostro amico, o conoscente, o sconosciuto, permetteremmo di trattarci così?
“Qui”, posso dirlo, non ha mai trattato così i suoi lettori; anzi, ha sempre cercato di fare l’opposto: mettere in movimento la loro intelligenza e sensibilità. Che, poi, le portassero ovunque volessero. Si dessero obiettivi loro o nessuno. La “domanda” che, con la sua “offerta”, la rivista ha sperato di incontrare nel “mercato” era questa. Non avrebbe mai potuto, quindi, fare propri i modi e l’obiettivo della pubblicità in senso lato, né, a maggior ragione, fare pubblicità in senso stretto.
(Certo, è possibile che, con il fatto che “Qui” non è riuscita ad avere un numero di lettori sufficiente a farla vivere, tutto ciò non c’entri niente. Che sia stata, semplicemente, una rivista non abbastanza bella, non abbastanza interessante. Non sono io, troppo coinvolto, a poterlo dire. Ma, se anche la “pubblicità” non c’entrasse niente con i problemi di “Qui”, e di tante altre riviste e iniziative culturali, c’entra con tutti noi. Se non ha fatto del male a “Qui”, ne fa, cosa ben più importante, tutti i giorni a tutti noi.)

Riprendiamo il filo. Mi sono ritrovato quindi, quest’anno, con tutti i problemi che, un anno prima, avevano portato a sospendere la rivista, irrisolti. Il numero di abbonati continua a essere insufficiente a coprire le spese; e soprattutto, considerati gli sforzi già compiuti per aumentarli, non è prevedibile che la situazione cambi; se non, forse, sul lungo periodo. E, senza la prospettiva di andare in pareggio in tempi ragionevoli, non è possibile continuare a chiedere ad amici e abbonati contributi “straordinari”.
Il lavoro editoriale necessario a fare uscire la rivista in una forma dignitosa ha continuato a gravare interamente su di me. “Qui”, è vero, ha potuto contare quasi dall’inizio su traduttori bravi e generosi, alcuni dei quali, pur lavorando gratis, pur avendo ovviamente diritto a ricevere la rivista gratis, hanno voluto ulteriormente sostenerla abbonandosi o regalando abbonamenti. Ha potuto contare, quasi dall’inizio, su un bravissimo grafico che le ha regalato tutte le sue copertine. Ha potuto contare, per un certo periodo, su un gruppo di redattori che, in incontri mensili, vi hanno contribuito con idee, suggerimenti, critiche. Ma, se ha potuto contare su questi preziosi aiuti, è sempre mancato quello di qualcuno con il tempo e anche le competenze tecniche necessari per farsi carico non pagato, insieme a me, del resto del lavoro editoriale.
Quanto al bisogno che a pensare e comporre la rivista, dopo dieci anni, partecipassero altri, nel corso dell’anno scorso e di questo “Qui” ha intrecciato molti nuovi rapporti. Più persone hanno scritto appositamente per essa o le hanno inviato pagine di diario. Sono stati contributi importanti, e spesso begli incontri umani, ma nessuno di questi rapporti ha assunto la forma di una collaborazione nel pensare, nel comporre la rivista, di una sua condivisione. Come, d’altronde, non era accaduto con il gruppo di redattori, pur amici di “Qui” e miei personali da ben più tempo. Forse la rivista non è mai riuscita a liberarsi dalla tara di essere nata per iniziativa di un singolo invece che già di un gruppo? Può darsi.

Questa la situazione. Non so, però, se sarebbe stata sufficiente a farmi dire “basta”, a chiudere “Qui”, se non si fosse aggiunto qualcos’altro. E non so se questo qualcos’altro riguardi soltanto me o anche proprio la rivista. Capirlo, almeno per ora, mi è impossibile. È il senso, già emerso e dichiarato quando “Qui”, due anni fa, smise di uscire, e fattosi nel corso di quest’anno più certo e profondo, che quello che la rivista (o io?) poteva e voleva fare, l’ha fatto. Che ora c’è bisogno (o ho bisogno?) di altro. Di che cosa, non lo so. Ma, per quanto mi riguarda, non potrà essere che qualcosa in cui alla preoccupazione “politica”, per il nostro presente e il nostro destino, si accompagni lo sguardo, fisso e ininterrotto, su tutto ciò che, spesso ritenuto a torto “impolitico”, trascende il “qui e ora”.
L’arte e la poesia (in un appunto buttato giù quando, sospesa la pubblicazione di “Qui”, ero alla ricerca di altro, trovo una frase di Mario Luzi: “La poesia non è altro che la vita che si cerca”). E il pensiero. E la bellezza. Mi è sempre rimasta in mente una pagina di diario di Laila El Haddad da Gaza del 31 marzo 2006 (pubblicata sul numero 14 di “Qui”). Diceva: “Ho sentito un sacco di volte questa parola, paradiso. Da gente che descriveva la sua casa, il suo orto, il suo frutteto sradicato. Non vedono la guerra e la distruzione e l’illegalità e tutta la bruttura dell’occupazione e dell’anarchia. Vedono la bellezza”.
Questa rivista ha sempre cercato di tenere lo sguardo, fisso e ininterrotto, su ciò che trascende il “qui e ora”. Può sembrare contraddittorio, visto il suo titolo. Non lo è. Affatto. Perché il “qui”, il “presente”, ha sempre cercato di trascenderlo. Non solo facendo giocare insieme pagine di diario e poesie, e racconti, e saggi (come, per portare un solo esempio, accostando a terribili testimonianze sull’invasione israeliana di Gaza del dicembre 2008, nel numero 22, un brano di Conversazione in Sicilia di Elio Vittorini sul “dolore del mondo offeso”). Non solo così. Anche prima. Nella sua “forma”.
Mi ha sempre stupito, nel leggere diari e blog e sceglierne delle pagine, strapparle al loro contesto e portarle a comporne un altro, quello di “Qui”, vederle in qualche modo trasfigurarsi, divenire quasi come frasi musicali (fin dall’inizio, nel concepire e poi fare questa rivista, mi è capitato di pensare alla musica, al suo susseguirsi e scontrarsi di temi e tempi, andante, allegretto, maestoso…). Mi ha sempre stupito, insomma, vederle “formalizzarsi”. (L’avranno visto anche i lettori? Non importa. Importa che l’abbiano “sentito” e, da commenti arrivati, so che almeno alcuni l’hanno sentito, che si poteva sentirlo.)
Nel 1965 Franco Fortini scrisse: “L’uso letterario della lingua, la sua formalizzazione […] non è forse metafora d’un modo d’essere degli uomini? […] La restituzione dell’uomo a se stesso, insomma la capacità, individuale e collettiva, di fare sempre più se stessi, di autodeterminarsi, di formare passato, presente e avvenire. […] La ‘formalizzazione’ della vita è la vittoria sull’impiego solamente praxico della medesima, cui siamo sottoposti nel lavoro alienato. […] L’uso letterario della lingua è omologo a quell’uso formale della vita che è il fine e la fine del comunismo” (Verifica dei poteri, Garzanti, Milano, 1974, pp. 182-190).
Una volta condividevo queste parole dalla prima all’ultima. Adesso devo togliere l’ultima: “comunismo”. Ma esse mi hanno insegnato che nella “forma” è sempre adombrato, prefigurato qualcosa - una compiutezza, un’armonia, una felicità, una libertà, un’emancipazione - che raggiungere fino in fondo nella vita è forse impossibile, ma cui non aspirare, nella vita, è rovinoso. Nella forma s’incarna un’aspirazione. “Swann trovava in sé, nel ricordo della frase [musicale] da lui udita,” scrive Proust “la presenza d’una di quelle realtà invisibili cui aveva cessato di credere e alle quali, come se la musica avesse avuto sull’aridità morale di cui soffriva una sorta d’influsso elettivo, sentiva di nuovo il desiderio e quasi la forza di consacrare la propria vita.” (Alla ricerca del tempo perduto, vol. 1, La strada di Swann, trad. di Natalia Ginzburg, Einaudi, Torino, 1967, p. 227.)